Tibor Szemző: The Conscience – Narrative Chamber Pieces | August 1993

Musiche #14 | Roberto Paci DaIò | essay | August 1993 | Italian

(Leo Records 1993, CD)

Abbiamo ascoltato più volte di seguito questo nuovo cd di Tibor Szemző. Quasi mai ci capita soprattutto con musiche cosiddette «contemporanee». Ma si tratta di un disco particolare. Ad ogni ascolto cercavamo di capire dove fosse il fascino, quale fosse la molla del desiderio che ci spingeva ad ascoltarlo ancora una volta. Tuttora non l’abbiamo capito e non possiamo far altro che continuare ad ascoltarlo. Rispetto al precedente Snapshot from the Island deI 1987, di cui abbiamo già parlato in passato¹, Tibor Szemző si presenta qui in qualità di compositore e direttore ma non di interprete ai flauti. The Conscience vede la partecipazione di un folto gruppo di musicisti riuniti in un ensemble misto di grande qualità che approfondisce ulteriormente alcuni aspetti del lavoro di Szemző. E lecito pensare che alcuni dei musicisti siano compagni di vecchia data di Szemző probabilmente già parte dello storico «180 – As Csoport» (Gruppo 180) ². Con l’ensemble abbiamo poi il Danubius String Quartet, la gipsyband di Jenő Oláh e come narratori P. G. Havlicek, Tarina Szemző e lo stesso Tibor Szemző. «Narrative Chamber Pieces» è il sottotitolo del disco. I tre brani sono accomunati infatti da voci narranti che danno una particolare unitarietà a tutto il lavoro.
Il primo brano, SkuIlbase Fracture è del 1984 ed è per narratore, ensemble da camera e gipsyband. Il testo è di P.G. Havlicek ed è detto dall’autore stesso. L’anzianit à del brano giustifica tutta una serie di presentazioni dal vivo in versioni differenti. Ricordiamo soltanto Ars Electronica a Linz, Hebbel Theater a Berlino e a Rimini all’interno del ciclo «nuova musica & musica rara» in una incantevole versione per flauti, elettronica primitiva e film di Péter Forgács³. L’avvio è nel più puro stile della musica minimale acustica quale quella di Steve Reich, ma progressivamente ed impercettibilmente diviene qualcosa di molto diverso. Quella che sembra una citazione di materiali consueti, gradualmente viene modificata con una tecnica effettivamente «ortodossa» dal punto di vista della musica ripetitiva ma assolutamente diversa come risultato. Si possono qui già tracciare delle differenze fondamentali rispetto alla musica minimale più consueta: l’orchestrazione è particolarmente raffinata ed abbiamo un reale sviluppo sia dal punto di vista timbrico che melodico. La voce di Havlicek è particolarmente appropriata nella lettura di un testo anch’esso minimale. Trattasi infatti di una minuziosa descrizione di una persona incontrata su un autobus. Questo passeggero indossa un colletto da terapia per trauma cranico. Dall’osservazione di questa persona prende avvio una singolare divagazione che finisce per trasformarsi in una sorta di conferenza dove alle parole in prima persona dell’autore si aggiungono quelle di ospiti provenienti da paesi diversi. Skullbase Fracture è un brano che ne contiene contemporaneamente un secondo. In maniera emozionante ed imprevedibile si scopre come nel corso del brano, della durata di 30 minuti, tutta la struttura armonica e melodica sia costruita sul popolare motivo Hullámzó Balaton tetején eseguito dalla gipsyband di Jenő Oláh. Nella versione dal vivo con ensemble al completo ad un certo punto i musicisti «colti» smettevano di suonare e si disponevano a 180 gradi attorno alla gipsyband. Immobili, in silenzio. Ascoltando. Una bellissima immagine di catarsi collettiva. L’ingresso nella melodia è cosí graduale che non si capisce dove e come succeda. Ad un certo momento ci si rende conto di essere in un ambiente totalmente diverso e molto caratterizzato. Questo basta per trasportare l’ascoltatore in un universo acustico lontano da una certa asetticità della musica minimale più conosciuta. Per coloro che si sentono in qualche modo legati (culturalmente, musicalmente, affettivamente) all’Europa centro-orientale l’ascolto di questo brano è un appuntamento importante. La musica di Tibor Szemző si muove attorno ad un concetto che potremmo definire come «linea della malinconia»:
un sottile segno di matita su una vecchia carta mai aggiornata che congiunge i due porti di Rostock, sul Mare del Nord, e Trieste. Nella musica di Tibor Szemző c’è tutto questo. Un particolare charme, un’attenzione non retorica per il desueto e per l’object trouvée, un insieme di elementi acustici che immediatamente divengono anche visivi e che vengono combinati ma non confusi, una pratica alle musiche ed alle vicende artistiche più legate al concettuale, un’abitudine all’utilizzo di materiali minimi elaborati con partecipazione e amore in un continuo processo di concentrazione, chiarificazione e riduzione. In Skullbase Fracture l’elaborazione di una semplice frase unisce con delicatezza generi che paiono lontani o inconciliabili. Una relazione continua e non retorica con il proprio Teatro della Memoria Acustica.
Il secondo brano, Optimistic Lecture del 1988, porta come sotto-titolo «Concertino for Record Player and Mixed Ensemble, In memoriam M. Erdély». Ad un avvio anche qui molto legato alla scrittura minimale più abituale si succedono presto diverse sorprese acustiche. L’ensemble di grandi dimensioni include legni, archi, ottoni, percussioni, basso elettrico, batteria e il brano si trasforma in un pezzo dall’andamento decisamente rock – o meglio: nella sua trasfigurazione. A questo punto, come ulteriore capovolgimento, le voci del Trio Lóránd (disco Supraphon) eseguono The Ovinu Malkenu Litary di Rabbi Akiba, per Yom Kippur, sovrapponendosi all’ensemble ed alla voce parlante dello stesso Szemző che presenta degli estratti da Optimistic Lecture dell’artista con-cettuale Miklós Erdély.
The Sex Appeeal of Death, del 1981, ci mostra una incantevole voce di ragazzina che dice con linearità e senza fuorviante interpretazione un testo di Tibor Hajas sulla morte(4). Proprio la singolarità della relazione tra voce e testo fa si che questo acquisti ulteriori significati ed importanza. Tutto è chiaro eccetto il fatto che non vogliamo capire perché una voce gentile ed innocente dovrebbe parlare della morte.
Come giustamente dice A.S. Yussuph in un lungo e dettagliato scritto che accompagna il disco: «Chiudo gli occhi e immagino John Coltrane, Miles Davis, Jasha Heifetz, Marcell Lóránd, Pablo Casals, Fats Domino, Jimi Hendrix, Andre Segovia, Bob Marley, Maurice André e Sándor Lakatos – il famoso leader di gipsyband – suonare insieme in un unico grande gruppo; potrebbero suonare nient’altro che un brano di Tibor Szemző.»

Roberto Paci DaIò

Note
1. Recensito sul n. 3 di musiche.
2. Lo ricordiamo in breve: con base a Budapest, fondato e diretto da Tibor Szemző, «180- As csoport» ha costituito dalla fine degli anni settanta un ensemble di assoluto rilievo nel panorama della nuova musica non accademica nell’Europa orientale. Grazie alle loro esecuzioni di altissima qualità, la musica minimale di compositori come Steve Reich e Frederic Rzewski ha avuto circolazione a oriente in tempi che sembrano appartenere alla preistoria.
3. Péter Forgács ha scelto da anni di lavorare su materiale di repertorio, specialmente vecchi film familiari in 8 mm realizzati tra gli anni trenta e cinquanta. Ludwig Wittgenstein è un video per la televisione ungherese, risultato di una collaborazione tra Szemző e Forgacs. Nel video, costituito da brevi episodi, viene sovrapposto il montaggio elettronico con queste vecchie pellicole creando ancora una volta la singolare sensazione di straniamento tipica di tutto il lavoro di Szemző. Nel concerto di Rimini Szemző utilizzò come altoparlanti una serie di vecchie radio a valvole Orion – la loro messa in commercio coincise con l’avvento della televisione in Occidente – creando un ambiente visivo di particolare suggestione.
4. «…Contemporary Europe, or rather Western civilization in general has been boycotting the death experience – excluding it from the voluntary ghetto of life…» (Tibor Hajas).